Io vorrei capire in questa estate appena iniziata cosa c'è nello scarto tra la vita dei social e la realtà, cosa ci si infila nel nucleo di quella distanza che apre le branchie e lascia entrare fravaglia di sentimenti. In quello spazio in cui non parliamo, ma osserviamo fin dentro le ossa l’altro, in quei momenti dove colui, colei, a cui abbiamo offerto confessioni, slanci, poi, quando vediamo comparire dal vivo quel corpo, quelle gambe, quelle orecchie, ci fa battere in ritirata e ci fa sentire un po’ scemi, sicuramente fessacchiotti: perché non chiudiamo quel cerchio con parole sensate, definitive? Invece spesso le affinità svelate vanno a spegnersi nel posacenere usato per i zampironi. Pare che tutte le cose in comune lievitate prima dell'incontro tra i corpi, sbattano contro gli alberi, schizzino in aria: ogni abbraccio in potenza diventa goffo movimento tra gli occhi e le mani. Che osservi inquiete, che tengono la bottiglietta di birra a mo’ di biro, pronta a registrare quell’impaccio tra la tua anima in fiamme e la realtà, a cui non sai tenere botta in quei momenti. Vincono l'imbarazzo, e anche la sfrontatezza, tuo malgrado, ti agiti eccitato d'ascolto, d’attenzioni, ma la serata deraglia dentro schegge di ricordi che vuoi catturare, al posto delle lucciole. Ci concediamo il racconto degli inverni lavorativi ancora da smaltire, e sullo sfondo, tra pioppi per niente tremuli si vanno a depositare le solite inconfessabili paure: cosa ci faccio ancora qui tra di voi, dopo essermi trasformato anni fa in un airone per sfuggire ai vostri stagni?
Ci dormi su, all'alba prepari il caffè davanti ai fantasmi dei tuoi amici, delle tue amiche, dei tuoi figli sacrificali delle tue serate, sempre più rare, un po’ mondane, un po’ rimpatriate a cui hai lavorato dietro le quinte di sceneggiatura, di coreografia, eppure anche stavolta prevale l'aspetto attoriale, la diversità degli altri sempre Benedetta, ma un po’ anche temuta in questi tempi polarizzati sul nulla.
Ieri sera, dopo che anche l'ultima auto ha lasciato col suo rumore nel buio il viale tra gli ulivi, ti sei messo da solo a collocare meglio le lucine a energia solare. Volevi vedere come inquadrare meglio i fantasmi rimasti appiccicati alle sedie sbilemche, o come far rivivere nella tua mente la scena dell'amicizia, di quel parlare ora con un gruppetto e poi con un altro, passando nel frattempo da uno dei tuoi figli che credi di aver trascurato. Poi con un'amica a parlare di libri, e con un'altra di pomodori, e un'altra ancora ricorda amici persi dietro il proprio caratteraccio: spettri usciti di scena, percepirne la presenza tra di noi come assenza dispettosa. E capisci di aver perso qualcosa a cui non vuoi dare un nome, un ruolo, una possibilità, in quel palcoscenico d'erba e sedie vuote. Così non ti rimane che spostare le lampadine sul filo di glicine, sull'amaca mossa dal venticello, e all'ingresso, sul vialetto, fatto da te, quando agognavi un futuro da sopravvivere in allegria coi tuoi amici.
L’ultima lampadina ti cade sulla testa, e i filamenti fanno solletico sulla nuca, costringendoti a ridere tra il rosmarino e il noce poco prima che si scateni il temporale a chiudere il sipario sulla serata.
Alla fine di questa paginetta sospiro e mi dico, ma sì, sono ancora vivo. Dura il tempo della rilettura, perché lo so, se compare un amico adesso, se mi telefona un'amica, ritorno al me sedicenne che farfuglia, ride, si piega, scruta, giustifica, insomma, cerca sempre di bloccare la tempesta con la schiena alla finestra. Così facendo non guarda mai in faccia le emozioni, i desideri, intenzionato come sempre a viverne di succedanei, o di fantasmi, e mai mai toccando i corpi, mai leccando la realtà, mai sentirne la pelle ruvida o liscia, come una superficie di un pianeta appena scoperto dalla tua navicella spersa tra tempeste di orbite, tra facce e parole tutte per te: un incipit notevole, senza secondo atto, da sempre.
(vorrei tanto che fosse il mio ultimo post, perché questo posto mi sta stritolando il tempo, se così fosse, sarei contento di un commiato così straziante)