Luigi mio, atto II
Teatro India, ore 21, mi siedo nel mezzo della prima fila nel posto che mi ha riservato Luigi. Arriva Fiorella, trafelata come sempre. Ha cambiato pettinatura, sono tre anni che non la vedo. La sto per salutare, ma si spengono le luci, si alza il sipario.
Alla fine del pranzo di ferragosto del 1985 mio nonno scoppia a piangere. Col babà in mano mezzo mozzicato, piagnucola: povero papà mio, povero papà. Davanti a lui, a noi, si allunga la tavolata piena di piatti vuoti, bicchieri d'acqua, mani poggiate, gomiti sugli spigoli, bicchieri di vino a metà, tovaglioli, briciole sparse, e nell'aria rumori di posate a sfumare nel silenzio d’imbarazzo: si sono azzittiti pure i grilli.
Papà, perché piange nonno? gli chiedo correndogli dietro in direzione del pozzo, dove sta andando a prendere il cocomero messo in fresco prima del pranzo. Tira su a strappi la carrucola e sbuca il secchio di ferro che contiene il cocomero. Mette in salvo sul ripiano di pietra il cocomero, e mi dice: tuo nonno soffre ancora per via di suo padre. Ma perché, cosa gli è capitato? Mio padre prende in braccio il cocomero, mi fissa per uno, due secondi, e poi frettolosamente torna verso la tavolata. Lo seguo come un gattino, con questo pensiero del dolore di mio nonno sempre più misterioso tra le gambe. Lo sorpasso e in un lampo mi piazzo tra la sua pancia, il cocomero e la mia domanda sul nonno. Ma si scem’, mi fa, mentre si asciuga il sudore, approfittando delle mie mani che lo aiutano a tenere su il cocomero. Mo’ mi spieghi questa storia del padre di tuo nonno, cioè di tuo nonno, quindi il tuo bisnonno…Uè, fermati, che lo stai a fa’ diventa’ ‘n antic’ roman’! Vabbè, mo’ ti dico cos'è capitato a mio nonno, il tuo bisnonno Vincenzo…
Si siede sul muretto a secco, mette il cocomero in mezzo tra me e lui, e inizia a raccontare.
Stasera lo faccio io per lui, per voi, perché mio padre non c'è più.
Questo bisnonno si era ritrovato a partecipare al linciaggio che fecero gli itrani contro gli operai sardi nel 1911. Era giovanissimo, facile al contagio amicale, passionale, e neanche capiva perché stava menando quelle persone irsute, abbronzate di fatica. Finché ne vede uno di loro trafitto appoggiato a un muro: pareva che volesse fermare il palazzo, di schiena, con le mani addosso al muro pieno di sangue. Vede quell'uomo morto e crolla.
È successo che per un equivoco, una parola di troppo, la popolazione maschile, incluso Vincenzo, spinta dal sindaco, dai carabinieri, dai capipolo, si è messa a rincorrere questi operai partendo dalla piazza, spargendosi poi come il male nei mille vicoli, nelle loro case, e fino ad andarli acchiappare nelle campagne tutte intorno. Questi itrani erano armati di bastoni, di forconi, di fucili, perché dovevano dare una lezione a quei poveri operai sardi. Gli operai erano stanchi di pagare il pizzo alla camorra, si stavano organizzando per non farlo più, così, una parola di troppo verso una donna indigena va a innescare il brutale linciaggio. Alla fine dei due giorni di caccia all'operaio, ne uccidono otto, e ne feriscono almeno sessanta, e costringono a scappare tutti gli altri, donne e infanti inclusi, fino a farli andare via spaventati dal paese che li ospitava senza particolari problemi fino a un attimo prima delle violenze. Si imbarcano per tornare per sempre sulla loro isola, frastornati e spaventati, per una scelta che non avrebbero mai fatto volontariamente. Gli operai erano lì per realizzare la nuova ferrovia direttissima Roma-Napoli. E con sé molti avevano mogli e figli. Erano diventati nel giro di qualche anno operai orgogliosi, poiché usciti dalla condizione di minatori sfruttati negli anni precedenti in Sardegna.
Questa è la Storia. Quello che è capitato al bisnonno invece è diventata un'altra storia.
Eccola.
Non dorme più dal giorno del linciaggio. Mangia poco. Esce pochissimo. Si dà cazzotti in testa, e inveisce contro se stesso: pecchelofatt’? Siccome gli succede di farlo anche in piazza quando incontra qualcuno è gli racconta il suo imperdonabile errore ad aver partecipato al linciaggio, e siccome la popolazione non vede l’ora di dimenticare il fattaccio dell’eccidio, da quel giorno in poi Vincenzo, il bisnonno di mio padre, diventa per tutti: pecchelofat’? Con tanto di gesto dei pugni per prenderlo in giro. Così, giorno dopo giorno, Vincenzo diventa lo zimbello del paese, e dell’eccidio invece, piano piano, non se ne parla più. Dopo qualche mese di angherie, che lui sopporta stoicamente, poiché è il suo prezzo da pagare per aver agito come un “malamente”, si imbarca a Napoli sopra un mercantile. Gira il mondo per due anni di fila, e nei periodi di riposo visita le città portuali dove l'enorme nave attracca: New York, Montevideo, Genova… Impara a leggere, impara le lingue. Piange tutte le sere al tramonto, poi, una volta che la palla rossa, gialla o bianca, o immaginata, perché nascosta dietro le nuvole, scende per sempre nel buio, lui smette di colpo, e scrive. Comincia a scrivere lettere ai suoi parenti, a Eliana, rimasta al paese con la promessa di sposarla appena mette da parte il gruzzoletto necessario. Inoltre, scrive anche lettere per conto degli altri marinai. Così diventa per tutto l'equipaggio il letterino. Alle fidanzate, alle madri di questi, arrivano lettere sentimentali partorire dalle sue lacrime del tramonto, a cui però riesce a dare ogni volta una voce diversa. Perché secondo lui dovevano somigliare il più possibile a chi gliele aveva commissionate: i marinai dettano gli umori, le richieste, l'amore, e lui, il letterino, glieli traduce in un italiano vivo. Una di queste lettere arriva davanti agli occhi di un parente del marinaio Salvatore, uno importante! gli sussurra mentre gli detta una solenne richiesta di lavoro: Vogl’ sta a terr”, pecché gliù mar’ m’ fa’ isci pazz’. Questo esce da quella bocca sdentata ma piena di grazia, e Vincenzo lo ascolta, lo fissa, e butta giù una lettera che fa commuovere questo signore importante, possibile procacciatore di lavoro. Si tratta del prozio dell'uomo che sta impazzendo per troppo mare e fa una richiesta di raccomandazione al prozio, ovvero, il vescovo di Arezzo. Vincenzo, senza saperselo spiegare, si è impegnato più delle altre volte a tradurre i pensieri e le richieste di Salvatore, fino a farla diventare “una lettera abbacinante". Così il vescovo dirà dopo un mese dal suo ricevimento per posta internazionale, e poi letta e riletta, e riletta ancora, fino a riuscire di farla pubblicare a un caporedattore sulla Nazione di Firenze. Una volta sul giornale, un editore la nota e la fa pubblicare sulla prima pagina della Domenica del Corriere, col titolo: dignità per i lavoratori di mare e di terra. Mentre la sua lettera diventa qualcos’altro, e inizia la parabola del suo imminente futuro, Vincenzo si ammala e viene fatto sbarcare a Livorno. Rientra al paese e per tutti non è più pecchelofatt’?, perché col successo della pubblicazione sui giornali della sua lettera, si è trasformato in quello delle lettere dei giornali. Salvatore, l'intestatario, nonché suggeritore della lettera, una volta avuto rassicurazioni del posto di lavoro da parte dello zio vescovo, ha ammesso di non averla scritta lui: te n’eri accorto o gliù zi’, io non saccio manco parla’: l’ha scritt’ gliù letterina nuost’: Vincenzo.
Quello “delle lettere ai giornali”, fa pure più ridere come soprannome, e lo fa diventare ancora di più uno strambo agli occhi dei paesani.
Intanto Eliana, felice e gioconda per esserselo ritrovato vicino in anticipo, anche se con mezzo gruzzoletto soltanto, se lo sposa in fretta e furia malaticcio com'è e lo accoglie a ogni tramonto, sempre temuto da lui, col suo seno poderoso. Fanno subito un figlio, e poi un altro ancora. A Vincenzo, nel frattempo, la sua invalidità lo fa diventare impiegato presso l'archivio del comune. Continua a scrivere. Dopo tre anni di scrittura all'alba di ogni santo giorno, prima di entrare in servizio, riesce a cavare fuori otto novelle. Otto, come gli operai morti durante l’eccidio. Ciascuna racconta la vita di quegli uomini fino al giorno prima del linciaggio.
Sono racconti un po’ immaginati e un po’ recuperati dalle pochissime informazioni che c'erano, sulle storie di questi immigrati, e delle loro famiglie, lontani dalla loro isola.
L’autore, Vincenzo Letterino, gli dà un respiro epico e quotidiano, restituendogli la grazia e il sacrificio di vivere in semplicità ma con il fuoco acceso di un imminente riscatto sociale: siamo operai, non più minatori. Questa è la prefazione scritta sul libro pubblicato a spese della curia vescovile nel 1923, l'anno dopo la morte di Vincenzo, quello delle lettere ai giornali, quello del pecchelofatt? Quello che si è impiccato su di un ulivo secolare con vista sul golfo di Gaeta, nel giorno di ferragosto del 1923.
Continua…