Entro e trovo un portiere appoggiato alla ringhiera. Mi scruta, coi suoi pantaloni larghi e due baffi siciliani. Il numero, l'interno, me li indica con gli occhi, con un dito, la direzione e il numero del piano. Busso, mi apre un ragazzo in mutande che mi accompagna, dopo un ciao mozzicato di sonno, nel salone luminoso dove c'è il proprietario seduto sopra una poltrona blu. Dammi del tu, mi chiamo Mario. Faccio il giornalista, e tu? Mi guarda, strizza gli occhi dopo la mia risposta, e ha un tono moscio nel chiedermi da dove arrivo. Si crea un vuoto di silenzio elettrico, poi Mario, il giornalista, fa un piccolo scatto verso di me poggiando la sua mano enorme sulla mia coscia. Continua con gesti e parole appiccicose, fino a chiedermi: quanto potresti pagare al mese? Non so… borbotto, spiazzato. Continua: centomila lire mi bastano, però, caro ragazzo, però includiamo anche la tua compagnia ogni tanto?
Mi alzo di scatto, attraverso la casa, sfioro quello in mutande, salto l'indifferenza pettegola del portiere e mi ritrovo nel baccano del traffico. Non accettare, non accettare, urla la voce tuonante rossa contro quell'altra, la voce giallognola, che vuole la comodità: a due passi da termini, oh! No no, meglio fare avanti e indietro che stare appresso a questo ricchione, strilla la voce rossa. Magari non è proprio ricchione, continua la voce giallognola, forse si accontenta di qualche carezza, insiste, più giallognola che mai. Infine, a bassa voce dice: coi vecchi compagni di vico ci facevamo le pippe a vicenda, mica per questo mo’ siamo ricchioni. Per ore, per giorni, voce rossa e voce giallognola continuano a litigare, io nel frattempo rallento la frequenza scolastica, e il sapore malinconico dei cappuccini bevuti sulla laurentina alle otto di mattina piano piano perdono quel gusto speciale.
Il giorno dopo
Scendo dalla metro, sono due ore che viaggio: non era ancora sbucata l'alba sul golfo mentre il treno spariva dalla stazione. Ora ho davanti questo lungo laghetto rettangolare, pieno di luce a macchie sugli alberi. Mi sveglio alle cinque di mattina a centoquaranta chilometri da qui, mentre i miei compagni di classe stanno ancora a togliersi le ultime caccole dagli occhi: ma perché non riesco più a essere contento nemmeno davanti a questo bar della scuola? Frequento una scuola a Roma, una scuola così fica, che mi piace da pazzi: ecco, mentre lo penso mi si drizzano ancora i peli sulle braccia. Nemmeno le ragazze, già truccate e precise a quest’ora, mi fanno questo effetto.
Una volta in classe, comincio a parlare di calcio con un compagno, da un mese ci conosciamo ma ora si accesa la scintilla: mi piace come pensa e cosa pensa, e vorrei piacergli anch'io. All'improvviso mi fa una proposta: mia madre ha detto che poi veni’ a dormi’ da noi. Lei è tranquilla, oggi se te va vie’ a conoscerla. Non gli avevo chiesto niente, forse mi era sfuggito che stavo cercando una stanza, buttata là in qualche discorso fatto in classe. Dopo l'ultima campanella si parte insieme. Ci ritroviamo in un piazzale un po’ obliquo che lui chiama colli albani, e io, non conoscendo bene Roma, penso di essere arrivato ad Albano. In realtà in metro me lo aveva detto, ma ero troppo incantato dai suoi discorsi, da questo suo fare tutto per me. E chi c’è abituato?
Puoi stare qua finché non trovi una stanza, ma se vuoi, anche per tutto l'anno scolastico. Abbiamo posto, perché c'è la cameretta libera del fratello maggiore di Matteo che sta facendo il militare. La madre di Matteo me lo dice a fine carbonara, e io resto col boccone a ostruirmi una risposta: in testa comincia a frullarmi gioia profumata di chissà cosa.
La casa affaccia su una strada stretta con macchine parcheggiate anche sui marciapiedi, ogni tanto sentiamo le frenate degli autobus. Ci rifugiamo in camera, da dove si vedono tanti alberi, sembrano dei soprammobili tra quei palazzoni. Resto imbambolato da questo stare bene in una casa già dalla prima volta. Matteo parla, parla, e organizza già i prossimi pomeriggi di partite a pallone, di sala giochi dove nascondersi a giocarci gettoni su gettoni, e poi di pomeriggi al pincio a rimorchiare. Chissà la mia faccia cosa sta comunicando in questi momenti, e chissà la madre di Giovanni cosa sta pensado di questo mio cercare una stanza a Roma. In fondo ho quindici anni, senza genitori ad accompagnarmi, a pagarmi la caparra. Penso, mentre Matteo sogna: nella stanzetta schizzano sensazioni che nemmeno a cape canaveral. Saluto la madre, che mi abbraccia e bacia, e mi dice cose su cose, e mi raccomanda di non farmi problemi, che chiamerà lei mia madre: poi mi guarda, mi fissa gli occhi per qualche secondo che diventano eterni per la mia timidezza, e mi abbraccia di nuovo. Scruto Matteo: sorride più di lei. Mentre mi accompagna alla fermata della metro, per tutto il tempo insiste: non ti fa’ problemi, mi madre ce tiene davvero a te. La metro parte e resto con la faccia a fissare il vetro del finestrino e rivedo come un film tutte le scene di quell'oretta fantastica a casa loro. Ho i brividi di contentezza, vorrei saltare, correre, e raccontarlo a qualcuno di quanto sono stato fortunato oggi a ricevere questo invito. Chissà cosa le ha raccontato di me alla madre Matteo, visto come mi tratta, come mi guarda negli occhi. Non mi sono mai confidato con lui, parliamo sempre di calcio, o di ragazze. Boh, chissà.
Sul treno è come scorrere tra le stelle al luneur: non vedo l'ora di arrivare a casa, ma anche di restare tanto tempo così non sarebbe male. Comincio a immaginarmi assieme a Matteo ogni giorno a scuola, poi a casa, mentre mangiamo tutti assieme, e poi le passeggiate con le ragazze in via del corso, ah che bello… Mi sveglio per un pelo alla fine della galleria, scendo dal treno e riprendo a saltellare fino all'autobus che mi porta a casa.
Vedo mia madre a luci spente seduta dietro la tenda del balconcino, le faccio bu! E le dò un bacio da dietro. Non capisce, ma ride, ride con tutte le gengive di fuori. Raggiungo mio padre sul divano. Lo piego da un lato con più spallate a rimbalzo, gli dico frasi senza senso e gli viene un sorriso d'occhi, poi si contorce, quando vado con le mani sotto le ascelle, e prova a cacciarmi via senza metterci la forza: è contento di vedermi allegro come se fossi ancora bambino. Arriva mio fratello col suo passo felpato, lo rincorro e gli faccio domande, mille domande su quello che ha fatto durante l'allenamento di calcio. Prima non risponde, poi lo fa con frasi strette, allora torno alla carica e prendo la palletta, gliela butto sui piedi: cominciamo una partitella come ai vecchi tempi, e gli faccio subito gol. Arriva mia sorella tutta agitata, passa come una lucertola dal portoncino. Le faccio subito il solletico. Si arrabbia, poi cede, il mio solletico è tremendo, non si può liberare: rotoliamo fino ai piedi di papà ridendo come matti. Mamma annuncia che la cena è pronta. Ceniamo, e io parlo, parlo, rido, li faccio parlare tra di loro, e ridiamo di ogni cosa, ridiamo fino alla frutta.
Squilla il telefono. Risponde mamma, capisco che è la madre di Matteo. Ascolta, mentre mi guarda, poi inizia a rispondere con un tono basso: grazie signo’, ma non può stare da voi, il padre non vuole. Mio padre la scruta interrogativo: non sa niente della questione. Mio fratello se ne va in camera. Mia sorella lo segue come una gattina. Resto senza fiato, nemmeno piango.
Prendo l’ultimo autobus, poi l'ultimo treno, e arrivo a Roma prima di mezzanotte. Prendo con gli spicci che mi rimangono un taxi. Come un grande mi siedo sul sedile posteriore e guardo le case, gli alberi, i bar come se fossero stati creati in quel momento. Una volta sotto casa di Matteo citofono senza paura. Mi viene incontro di corsa per le scale, al terzo piano ci abbracciamo con due sorrisi da premio nobel per l'affetto. Entro, saluto e ringrazio la madre. Sta in vestaglia bianca, con una mano tra i suoi splendidi capelli. Senza timidezza, le dico: comunque accetto l’invito, grazie. Poi scappo in bagno e piango tutto quello che c'è ancora da piangere nel mio corpo tutto slancio, sensibilità e paura.
Fine.
Ercole al bivio, Annibale Carracci