Ho un amico tedioso che mi insegue da anni col suo alito cattivo tra locali, case, cinema e centri sociali. Ovunque io scappi lui è là, con uno sguardo che mi commisera e stima allo stesso tempo. Come si fa a reggere nello stesso cuore questo doppio sentimento schizoide? Ogni volta avrei voglia di chiederglielo, ma poi la realtà dei fatti ci travolge, e me ne dimentico. Come quella volta che mi fece incontrare una donna, molto più vecchia di noi, carica di gloriosa storia fiorentina sin dal suo ingresso di casa. Lei era là sulla poltrona più sfacciata della terra, tra tende, arazzi, pareti affrescate, era là davanti al suo tavolino dorato ad aspettarci. Prego, e ci incalza subito con lo sguardo. Comincio subito la pantomima dell'ospite rimpicciolito dallo status di parvenu. Una volta seduti, mi adatto, cioè mi perdo, all'istante, come sempre, sparando cazzate su cazzate, intelligenti, furbe e bambinesche: e voilà, metto una maschera e cambia di colpo la mia immagine in quel salone settecentesco. Mi infervoro incoraggiato dallo sguardo attento della marchesa. Così, dopo una disamina fulminea sulla condizione dei camerieri stagionali della costa laziale, e una panoramica sulla capacità dei contadini nel risollevarsi dalla miseria dopo la guerra, col fiatone eccitato arrivo a dirle, sfacciatamente: avrei bisogno di soldi per un’idea di reportage in giro per i borghi toscani. Parlo spedito, senza virgole. Caccio dalla borsa delle foto in bianco e nero fatte ai contadini e ai camerieri del mio paese. La marchesa sospira: ma che belle, intense, vere. La vista delle foto le ha dato una scossa, sembra pure più giovane. Lei non sa nulla su quei soggetti fotografati in mattinate fredde dell’anno scorso, eppure, dopo averle osservate nel dettaglio, passandosele tra le mani con una lentezza che le allarga piano piano gli occhi, fino a farla chiosare con un: sono abbacinata!
Approfitto dell’incanto negli occhi della marchesa per sguinzagliare tutta la mia verve di parole e frasi, gesti e smorfie, pieni di sogni di gloria, pieni di agitata brama di successo: quei cento metro quadri e passa di salone ormai un mio palcoscenico degno di una cavalleria rusticana.
Partirò ogni giorno da un capolinea diverso, riprendo il filo del discorso dopo la sbornia di ego, e aggiungo, rallentando il respiro alle parole, devo riuscire a visitare ventuno paesi per portare a termine questo progetto: come fece Goffredo Parise con i sentimenti, io vorrei farlo con il carattere, il genuis loci della antica e libera Toscana… vorrei solcare anche città più importanti, certo, sottolineo con tono enfatico, per rendere più prezioso e interessante il progetto, quindi, arrivare in città come Siena, Pisa, ma ci tengo a visitare, aggiungo per dare un'altra stoccata fascinosa, e qui la mia voce prende una piega alla Federico Zeri, soprattutto quei borghi appoggiati morbidi sulla vostra benedetta gloria toscana. Carico le frasi, sono irrefrenabile, sto allo zenit della mitomania e non voglio scendere più a valle della miseria della mia quotidianità: esiste solo il mio maestoso progetto. Insomma, senza presunzione, vorrei riportare in auge la prestigiosa forma del reportage giornalistico. Chiudo con questa frase il proclama, col fiatone, e sento di aver detto una colossale cazzata solo per continuare ad alimentare lo stupore della marchesa. Lei annuisce, fissandomi con quei suoi occhioni cerchiati di un nero leggero e, mentre si versa altro tè, mi sorride strizzando gli occhi, almeno così pare, o forse sono soltanto sue smorfie di vecchiaia. In quei secondi di attesa mi rotolo in visioni esagerate di salotti romani dove discettare di Capote, di Erodoto, Giorgio Bocca. Invece, interrompe, buca le mie nuvole di pensieri di gloria appoggiando di colpo la tazza sul marmo di Carrara del tavolino ovale, e dice: ti do un milione di lire per il progetto, in più vitto e alloggio per ogni paese 'ove sosterrai. Sicché, facciamo una sintesi ciccino, vediamo se ‘o ‘apito bene: tu arrivi al paese, fotografi i posti, intervisti gli abitanti, li ritrai, e poi resti a dormire almeno una notte in quel paese, nevvero? Tutto per ‘apire ‘ome sta cambiando il borgo, il paese, in quest’anni moderni e confusi. Va bene, ma devi pure andarti a cercare i personaggi, ovvero, quelle persone che ‘anno un peso proprio in quei paesi, sennò l’attenzione non l’acchiappi mica? Dobbiamo coinvolgere il lettore, sedurlo.
Non ci posso credere. Piego il capo, più volte, annuisco di occhi e di bocca, stordito dalle belle parole per il mio progetto. Non voglio più sprecare una parola: dovesse ripensarci la vecchia, mi dico, mentre guardo le mie Superga logore stagliate sul pavimento romboidale verde.
Affare fatto, urla sguaiatamente il mio amico appiccicoso. E aggiunge, facendomi vergognare, e ci sarà pure una esclusiva per la pubblicazione del reportage, nevvero marchesa? Vediamo, vediamo prima ‘osa ci combina ‘sto nostro bel ragazzo del regno delle due Sicilie.
Alla battuta della vecchia sulle mie origini borboniche, subito fanno eco le nostre risate in crescendo che riempiono l'aria nel salone, e seguono a fiato d’ansia la risata grassa della vecchia ormai tutta gonfia di tè.
L’idea del reportage m’è venuta dopo aver sbattuto la porta in faccia al mio maestro: non ho più bisogno del tuo aiuto, stronzo! Eppure, appena voltato l’angolo, poco prima di attraversare l’Arno mi ero già pentito: ma che cazzo hai fatto? E comincio a frignare già dal ponte della Carraia e fino a Santo Spirito e una volta su per via di San Frediano mi fermo, corro a nascondermi in un portone: sto lì a contorcermi come un verme per evitare conati d’ansia. Però l’orgoglio, invece di farmi buttare nel fiume, mi fa venire su dall’intestino in tensione questa idea grandiosa: fa' un reportage, dimostra al maestro chi sei! Cammino e cammino che quasi arrivo alla Certosa, poi faccio dietro-front e una volta in discesa riempio le tasche di questa idea che mi allargava bocca e occhi, e in più nelle gambe c'è uno slancio fuori controllo, per poi sfociare tutto magnificamente nell’amigdala: vai dalla marchesa, la benefattrice degli artisti!
Attraverso i Boboli e nelle cuffiette ho In perfetta solitudine, nella testa una mostra da organizzare, e nel sogno che sbuffa dalle orecchie un libro da scrivere. Pieno e pazzo di questa idea, mi sale un tale coraggio che mi porta fino a bussare al portone della marchesa: benefattrice di progetti editoriali avventurosi. Così c’era scritto sulla quarta di copertina del libro di sue memorie. Me lo aveva suggerito di leggere il maestro qualche giorno prima del mio scappare vigliaccamente dalla sua prestigiosa e costosa scuola di fotografia.
Ritorniamo alla marchesa.
Io e l’appiccicoso usciamo da quel palazzo saltando, cantando, lungo quei nostri amati boulevard fiorentini. Una ribollita a testa, pecorino toscano, e una bottiglia di Brunello per far brillare la serata fredda di febbraio, in quella angusta e accogliente fiaschetteria di San Lorenzo. A tavola l'alito dell’appiccicoso era ancora più schifoso: pecorino e vino, una bomba per il suo alito. Mi incoraggia, dice che ha sempre creduto in me, lo stronzo, l'appiccicoso, lui, lo stesso che quando gli dissi anni fa: voglio prendermi il diploma, a giugno porto tre anni in uno! Mi rispose: ma chi te lo fa fare, tanto asino resti. Non glielo rinfaccio, ché è pure permaloso, e sarebbe capace di farmi cambiare idea sulla marchesa e il progetto. Stavolta faccio di testa mia, tu bevi, bevi alle mie spalle, perché stasera ti stordisco e poi tradisco: cin cin.
L'indomani compriamo decine di rullini, un obiettivo da venti millimetri, e dieci pacchi di carta satinata da Sabatini. La carta per stampare le foto mi servirà alla fine del reportage, ma, tante volte dovessi finire i soldi, meglio prevenire. Ho i pensieri da contadino: conservo i semi di pomodori anche per l'anno a venire, dovesse arrivare la magra. Compro anche un paio di rebook comode, uno spazzolino, un cappello di lana e un registratore a cassetta.
L'indomani ancora, dopo la birra alla spina bevuta dagli irlandesi in piazza Santa Maria Novella, saliamo sulla prima Sita in partenza dal capolinea alle spalle della stazione centrale. Da patto, non leggo nemmeno la destinazione, non chiedo nulla: metto le cuffie e ascolto Ivan Graziani. Un lieve stordimento alcolico ci segue lungo il tragitto, facendo crescere una fame esagerata in compagnia d’un filo di mal di testa acuto come spina di rosa.
Mi ripeto in mente, mentre scorrono case, file di cipressi, vigne, cani, edicole, piazzette con fermate dei bus con pensiline coperte: basta birra, da oggi basta birra, solo un bicchiere di rosso buono a fine serata, ma solo se è stata una giornata di scatti e interviste come si deve agli indigeni. Devi concentrarti, questa è la tua chance, non disperdere energie appresso a questo appiccicoso vizioso e puzzolente. Da oggi devi infilarti nelle case e negli occhi degli abitanti che incontrerai. Continuo a ripetere il mantra del bravo reporter, per scacciare l'ansia da velocità esagerata dell'autobus, soprattutto in prossimità delle curve: oddio, ha sfiorato il muro! Lugano addio…
Scendo vivo dal lungo autobus blu, e il borgo ci accoglie con odore di legna secca da sottoscala a vista. Le prime bottegucce adocchiate sono ornate come dei salotti di casa. La pizza del forno è alta, soffice, come il seno della barista del bar in piazza dove mi siedo per un caffè. Sono al tavolino più panoramico del bar: in 90° colgo seno, chiesa e persone che chiacchierano sulle panchine.
Leggo La Nazione, mi soffermo sulla cronaca locale. Mangio il secondo budino di riso, alzo lo sguardo verso la barista e le chiedo se posso fare qualche foto. Le racconto del progetto, senza la mia solita timidezza, riesco a fare un discorso rilassato e convincente.
Intanto l'amico appiccicoso è a zonzo per il paese. Pare che io, mentre ascolto le mie parole uscire dritte e fluide dalla mia bocca per arrivare felici nelle orecchie della barista, pare che io non sia mai stato un timido con blocco della respirazione sempre in agguato. Lei ha degli occhi che nel giro di qualche frase sono passate dall'indifferenza toscana, all'ascolto tutte orecchie. Carico di tutta quella elettricità, arrivo, addirittura, a chiederle: posso farti anche dei ritratti? Sorride, continuando a pulire con lo straccio il bancone. Mi ci piazzo davanti e scatto primi piani alla blowup. Si irrigidisce un po’, faccio una battuta, si rilassa, nonostante io sia tutto eccitato nel ruotare l'obbiettivo, nel metterlo a fuoco, lei invece rimane attenta, monumentale dietro a quel bancone di legno e acciaio. Comincia a guardarmi con sguardo disarmato, vicino alla confidenza. Mangio un altro budino. Faccio parecchi scatti, incluse panoramiche del locale. C'è un signore che beve da solo in uno dei tavolini del bar, sta di spalle al bancone, e forse neanche se n'è accorto di quello che sta succedendo a tre metri dalla sua bevuta solitaria, non se ne è accorto che gli ho fatto dei bei scatti con lo sfondo della piazza quasi al tramonto. Alla fine la barista, senza che glielo chiedessi, mi versa un bicchierino di Chianti e comincia a raccontare. Le avevo chiesto: hai figli? Perché avevo notato una fede ben stretta al dito, così ho azzardato quella domanda che potesse farla parlare.
"Sì, ho un figlio di sette anni. Va in seconda elementare e gli piace tanto la geografia. Gioca a basket, e ha due occhi verdi come quelli del padre."
Fa una pausa, si guarda le dita, guarda l'avventore sempre di spalle col bicchiere di vino appena riempito, poi volta lentamente lo sguardo verso di me, mi fissa per alcuni secondi, si tocca i capelli, lascia cadere la spugnetta nel lavandino, esce dal bancone, si siede, mi invita a sedere. Ha un golfino peloso beige, gli occhi con fondo celestino circondato da brillantini, un jeans stretto che nel sedersi la costringe a un movimento laterale, sembra più giovane del suo atteggiamento da barista navigata che lascia intendere. Si è portata dietro un bicchierino di vino, lo sorseggia, più volte, pare abbia voglia di un abbrivio. Risponde alle mie domande scaccia-imbarazzo: da quanto tempo lavori in questo bar? Quanti abitanti ci sono a San Casciano? In quale categoria gioca la squadra di calcio? Risponde, divertita, incuriosita dalla mia curiosità al limite del maniacale, poi dice:
"Peccato che da un po' di tempo mio marito mi è diventato matto da un giorno all'altro. Non matto tanto per dire, ma perché lui è stato per davvero tre anni in manicomio. Purtroppo l’ho scoperto l'anno scorso, è da quel giorno che è diventato matto, ai miei occhi. Lui è di Faenza, e stava qui in zona perché si è arruolato nell'esercito. Maresciallo, fa il maresciallo in una caserma a Scandicci. Insomma, l'anno scorso Filippo, il nostro figliolo, aveva bisogno di una trasfusione, e così scopriamo che nel sangue di mio marito c'erano troppe tracce di psicofarmaci. Non ne sapevo nulla. Sapevo che prendeva farmaci, ma, come diceva lui, quei farmaci che prendeva tutti i giorni servivano per una malattia congenita. E chi si metteva a leggere i foglietti dei medicinali? Poi collego le sue crisi, il fatto che tornasse al suo paese ogni tanto per una, due settimane. Aveva uno psichiatra di fiducia che lo seguiva al paese. Niente di male, figurati. Solo che, da quando l'ho scoperto, così, per caso, questo suo passato psichiatrico, lui è cambiato davvero. È diventato ossessivo. Mi giudica sempre. Fino ad allora era un marito e un padre esemplare. Poi un pomeriggio, dopo che ho sbottato dicendogli che non lo sopportavo più così, mi ha dato una spinta, davanti a mio figlio. L'ho cacciato urlandogli contro tutta la rabbia che avevo accumulato in quei mesi; eh, mica mi sono fatta menare io. Il pomeriggio stesso è partito, è tornato dalla madre, dal padre, dalle sorelle, al paese. Sono dovuta andarmelo a riprendere dopo una settimana. Lho trovato lì, minuscolo e timido seduto in tinello tra i suoi famigliari. Non parlava, faceva parlare loro. Chiedeva scusa con gli occhi.
Che storia, mi scappa soltanto un banale: che storia. Lei, con gli occhi gonfi e umidi mi fissa, poi si alza di scatto. Raggiunge il bancone, nonostante non sia entrato nessuno nel bar.
Scusami, ho sbagliato, non so cosa mi ha preso. Perché ti ho raccontato tutto questo…
Ma no, tranquilla.
Ma a te cosa interessa? Stai qui solo per farmi delle foto…
Nel frattempo entra un gruppetto di vecchietti arzilli e cominciano a vociare e bere. Iniziano una briscola. Mi rabbuio insieme al giorno. Entra l’amico appiccicoso e comincia a raccontarmi che ha visto l'hotel dove andremo a stare stanotte. Mi racconta di un’osteria che ha adocchiato e poi prenotato: c’hanno una zuppa di fagioli da sturbo. Me lo ha detto la fioraia. Sta a tremila, ‘sto scemo, non vede che sto giù? Che coglione che è, ma come ho fatto a portarmelo appresso?
Tieni, ti ho scritto questa cosa, sto staccando dal turno. Ciao.
E va via con i suoi jeans stretti ormai senza il grembiulino nero, e adesso appare ancora più inquietamente bella, con lo sfondo giallo delle luci della piazza che la accompagnano fino all’angolo, dietro al campanile.
Ma come ha fatto a scrivere questo biglietto con tutta la caciara di ‘sti vecchi? Adesso al banco c’è un uomo con gli occhiali a fondo di bottiglia, neutro come un mobiletto, versa i bicchierini di vino come un ragioniere. Esco.
“Aveva quindici anni, era irrequieto, frequentava una comitiva di darkettoni, e un giorno ha tentato il suicidio. In quegli anni, gli ultimi dei manicomi all'antica, avevano pensato di ricoverarlo, per proteggerlo. Si sono fatti consigliare dal medico della mutua. Per fortuna in manicomio ha incontrato lo psichiatra che ancora lo segue. Da allora piano piano ha recuperato fino a mettere la firma durante il servizio militare. Poi ha incontrato me. Perché non me l'ha detto? Forse voleva scacciare quell'incubo. In quei tre anni di manicomio, soprattutto nel primo anno, è stato malissimo, perché non capiva cosa ci facesse lì tra quei matti. I genitori si affidarono a quel medico. Un tentato suicidio è una cosa grave, ma mica la fine del mondo, ma loro, terra terra come erano, che potevano fare di meglio? Ora che so anch’io del suo passato da dimenticare, lo ha fatto precipitare nell’insicurezza”.
Perché mi ha dovuto raccontare i suoi guai col marito? Mica faccio lo psicologo.
Stavi là con le orecchie aperte e quella lo ha capito. Più ti parlava e più aprivi le orecchie. Ti ho visto come la guardavi. Lei si è aperta, quando le ricapita uno che l’ascolta così?
Non è vero, non dire stronzate: le ho fatto solo un po’ di foto. Poi è partita con la confessione.
No, non volevi fare solo foto… vabbè, andiamo in osteria, sennò t’immalinconisci e la serata si storce.
Continua…